Draquila – Dittatura in corso (la recensione)

Se già Videocracy mi aveva angosciato profondamente, questo documentario di Sabina Guzzanti mi ha fatto incazzare come non mai. Scoprire del regime dittatoriale militare instaurato a L’Aquila dal Governo Berlusconi attraverso il braccio armato della Protezione Civile di Guido Bertolaso mi provoca un attacco collerico non indifferente.

Nessun giornale ne ha mai parlato (triste che sia una comica a farne le veci).

Nei campi, non si può nè entrare nè uscire senza incappare in un posto di blocco che fa domande, non si possono indire assemblee spontanee non autorizzate, non si possono bere cocacola e caffè (“per non eccitare i terremotati”), non si possono affiggere cartelloni di protesta. Mentre chi ha avuto le case si deve impegnare a riconsegnare TUTTO ciò che gli è stato fornito se dovesse andar via (DOVE???).

Gli aquilani sono PRIGIONIERI dello Stato Italiano. La Protezione Civile è la forza Carceraria.

Ma intanto, quello che conta è costruire, costruire, costruire nuove case, new towns, new centri commerciali. E la città vecchia è lasciata al declino più totale. Chi se ne frega, ci penserà qualche Governo di sinistra a ricostruire per i prossimi 20 anni: intanto, io m’incasso i consensi ora – chi vivrà, vedrà.

Da domani sarà difficile negarlo: l’Aquila è il laboratorio del regime che sarà (o che già c’è).

Grazie Sabrina.

Simon Koniansky – la recensione

E poi ci chiedono perchè noi ebrei siamo ironici.

Questa pellicola belga sulla sgangherata famiglia di Simon Koniansky, 40enne senza nè parte nè arte, è un piccola ‘Jewpedia’ di gag e satira tutta yiddish, quel misto di ebraismo e cultura mittelleuropea che pervade anche la letteratura americana moderna tramite i grandi Roth, Auslander&co.

L’originalità del film, in ogni caso, sta nella miscellanea: sottolineare alcune scene con musiche circensi, mescolare dialoghi faceti alle immagini dei lager polacchi ed infine, l’ossessione sessuale temperata dalla tenerezza e la goffaggine del protagonista. Tutto ciò rende questo film un piccolo gioiello della cultura audiovisiva europea.

Lasciatemi aggiungere una nota personale: che goduria vedere il film in compagnia delle ottagenuarie ed ebreissime Sara, Rachele e Marta che ironizzavano su ogni scena con la erre moscia (” quell’attoVe è uguale al mio Vagazzo!!”)! Rassicurante e tenero sapere che, mentre i turisti fuori si accalcavano attorno a dei monumenti morti, io potevo godermi quelli viventi accanto a me.

Sono momenti e film come questi che mi fanno ringraziare di vivere in questo infernale pezzo di paradiso che è Roma.

Invictus – la recensione

Alla fine di ogni film di Clint Eastwood ti chiedi come il cinema ne abbia fatto a meno fino a quel momento. Ogni suo film sembra necessario, ogni sua scena indelebile eppure gia’ scritta nella memoria collettiva.

Mai prima d’ora il regista si era spinto in pellicole epiche ed epocali. Era venuta l’ora: dopo Gran Torino che e’ la storia dell’integrazione tra un uomo ed il suo presente, ecco Invictus la storia di riconciliazione di una nazione con il proprio futuro.

Ma soprattutto, e’ la storia politica della Politica. “Mi avete eletto vostro leader, e allora lasciatevi guidare”. Ecco cosa dice Mandela-Freeman quando impone decisioni impopolari ad una nazione nera, assetata di vendetta verso la minoranza bianca. E’ una lezione di leadership, opposta a quella di mera e povera followship che lo spettacolo politico odierno ci offre con tetra regolarita’.

Ma e’ soprattutto l’ultima puntata della resa dei conti di Eastwood con i fantasmi della sua societa’. Una resa dei conti come sempre netta, pulita, priva di giudizio.

Ottimo lavoro, l’ennesimo da vedere e gustare.

Il concerto – recensione

Dopo 30 minuti la fine del film, avevo ancora il fiato sospeso. Per calmarmi, ho dovuto spararmi 1 ora di Tchaikovsky nell’iPod.

Il concerto” di Radu Mihaileanu, mai visto qualcosa di cosi’ sublime: un concentrato di tenerezza, arte, musica, passione, ironia e leggiadria. Degli attori perfettamente incastonati in una corona di diamanti in sceneggiatura. Una trama costruita in crescendo in cui esiste una commistione di generi incredibile. Sembra una commedia malinconica, di quelle a cui gli est-europei ci hanno abituato, ma all’improvviso nel lunghissimo finale (20 minuti), tutta la drammaticità si svela e si scioglie agli occhi dello spettatore che è combattutto tra l’estasi e la crisi di Stendhal.

Non sto esagerando:vorrei poter essere più chiaro e verbalizzare la miriade di sensazioni, ma sono davvero troppo emozionato e spiazzato. Un solo avvertimento: non andate a vederlo se soffrite di cuore o se non ne avete uno.

Soul Kitchen – cibo per l’anima

Fatih Akin ci ha gia’ abituato a commedie rocambolesche con la “Sposa turca”, ma con Soul Kitchen ha fatto un deciso passo avanti.

Il regista ammica a tutta la letteratura cinematografica di prim’ordine: da Almodovar di “Volver” in parti della trama, a Tarantino nella montaggio e nell’uso distonico della musica e del suo legame con la scena, fino a Bunuel in alcune sue tinteggiate surreali. Ma ci aggiunge del suo in maniera inequivocabile. Prima di tutto, nel disegnare un Amburgo del tutto aliena all’immaginario collettivo: la citta’ tedesca diventa sregolata, giovane, elettronica, divertente, frizzante; in una sola parola, diventa Berlino.

La fotografia e’ studiata in ogni particolare, perche’ il “grigiore tedesco” non venga mai fuori. E quando succede e’ strettamente funzionale al disegnare la psicologia del personaggio in quel momento. Paradossalmente, gli spazi aperti appaiono sempre nei momenti tristi, mentre quelli chiusi, claustrofobici in quelli allegri. Quasi a dimostrare che solo nella vicinanza tra esseri umani in luoghi limitati si crea la vera umanita’.

I personaggi, non a caso, sono iper-umani, ovvero, fin troppo umani. I protagonisti, due immigrati greci, sono carnali, passionali, disordinati, decisamente sconclusionati, ma sinceri, autentici. I personaggi collaterali fanno da contraltare: freddi, calcolatori, razionali. Il contrasto e’ inevitabile.

Ma il film racconta a noi italiani un’altra cosa: la vitalita’ economica, umana e sociale delle comunita’ di immigrati. Ci racconta della difficile ma indispensabile mistura di razze e tradizioni che ogni vecchia civilta’ occidentale deve affrontare se vuole vincere nel mondo attuale. Ci racconta che se rimaniamo chiusi nel nostro feudo europeo, siamo gia’ morti.

Alla fine del film, avevo una fame di vita ed una voglia di fare l’amore, come non mai. Non mi chiedete perche’, ma e’ la magia di chi sa raccontare la vita in metafora come Akin.

Ottimo lavoro!

La prima cosa bella: averlo visto

Italia batte America: 5 a 0.

Non ho altre parole per descrivere questo magnifico film di Virzì, uscito nelle sale proprio lo stesso week end del colossal americano AVATAR.

Devo ammettere che ero uscito per vederlo, ma poi ho preferito una commedia italiana. Cinema gremito, la gente rideva, piangeva e si stringeva attorno alla protagonista femminile, Anna – interpretata magistralmente da Micaela Ramazzotti (giovane) e da Stefania Sandrelli (anziana). Io ero in visibilio.

Virzì, dopo la storia tristemente moderna dei call center in “Tutta la vita davanti“, preferisce catapultarci in un passato italiano irrequieto, pazzo, senza freni ma leggiadro e divertente come la protagonista, vittima dei pregiudizi della gente di Livorno. Una donna scandalosa, con una vita sentimentale tumultuosa e con un amore smisurato per la vita. Virzì è innamorato della sua protagonista, ce ne accorgiamo ad ogni inquadratura, ad ogni battuta, ad ogni canzone che le fa intonare. Non è un caso che abbia scelto proprio sua moglie per interpretarla – e ce ne siamo perdutamente innamorati anche noi.

L’Italia batte l’America, dicevamo – ma preferisco: l’Italia batte l’Italia.

Non voglio scadere nella retorica passatista del “c’eravamo tanto amati”, ma piuttosto penso al cinema pieno zeppo di persone entusiaste per un film che parla di famiglie allargate, di cinema, di amore, di maternità, di fratellanza come da tempo non se ne vedevano. L’Italia, e ce lo dimostrano anche queste pellicole, è molto meglio di quanto la politica (e recenti episodi di cronaca) non ci vogliano far credere.

Anna è la metafora dell’Italia? No, è solo una portatrice sana di speranza ed vitalità. I due nemici giurati della politica dell’odio e della paura che infesta il nostro paese. Le cose cambieranno…ed intanto, ce ne andiamo a dormire con le note de “La prima cosa bella” di Nicola di Bari – cantata dall’italo-tunisina Malika Ayane. Chi ha orecchio, INTENDA.

Notte ragazzi.

La dura verità – la recensione del film

La dura verità è che in Italia non abbiamo le palle per fare una commedia così politically scorrect, e così romantica allo stesso tempo come “La dura verità“. Siamo morti artisticamente, la commedia è considerata un genere minore: noi siamo il fottuto paese della prosopopea, della Scala, dei drammi interiori e delle cazzate introspettive.

La dura verità è che le uniche commedie le lasciamo fare alla nostra politica, e questo ha un rischio: noi diventiamo le comparse di un film trash, e non i suoi spettatori, subiamo il copione e non abbiamo voce in capitolo con gli sceneggiatori. Semplici comparse.

La dura verità è che l’Italia non ha la forza di creare prodotti (si, miei cari radical-chic, di PRO-DO-TTO trattasi) cinematografici degni di qualche nota. Regnano la totale sciattezza di sagacia e la mancanza di mordacia condita con una membrana grigiastra topo. Così descriverei la cinematografia italiana.

Andate a vedere LA DURA VERITA’, una commedia per comuni mortali, per gente che vuole ridere, con malizia e anche con tenerezza. Ideale se volete dimenticarvi per 90 minuti di vivere in un paese totalmente TRISTE.

Julie&Julia – la recensione

La domenica passata rinunciai a vedere un film, solo perchè dovevo fare un’uscita galante.

MAI PIU’ RINUNCERO’ ALLA MIA PASSIONE PER UN PEZZO DI CARNE.

Spinto da questa grande illuminazione, sono andato a vedere un film che di carne parlava davvero. L’ultima commedia di Nora Ephron tratta interamente della cuoca americana Julia Child e di Julie, una sua fan che ha avuto successo dedicandole un blog.

Bisogna dirlo: la pellicola è soprattuto dedicata alla passione smisurata per la vita e la cucina.

Due aspetti che s’intrecciano, esattamente come le storie delle due protagoniste. Che vivono vite parallele in tempi diversi (Julia negli anni 60, Julie nel 2002), ma con un’intensità ed una tensione identica. E’ Julia ad essere tremendamente moderna o è Julie a vivere una fiaba vintage? La verità non c’interessa, perchè gl’ingredienti per il successo di questo film ci sono tutti: un montaggio delicato come una creme brulèe, una Meryl Streep spumeggiante come la panna montata e una Amy Adams dolcemente pazza come la mayonese.

Sono 90 minuti durante i quali vi s’ingrasserà il cuore dalle risate e dalla tenerezza. E per una volta, alla merda il colesterolo.

L’uomo che fissa le capre. E fissa anche noi.

Un George Clooney follemente simpatico, un grande Ewan McGregor in sua balia e le capre sono i protagonisti de “L’uomo che fissa le capre”. La prima psicosatira politica della storia del cinema.

Una divertente parodia della politica estera degli Stati Uniti dell’ultima decade, dove “Psico-spie” dell’esercito agiscono senza motivo e senza armi contro dei nemici e obiettivi che neanche loro conoscono. “Se sapessimo dove andare davvero, non avrebbero chiamato una psico-spia”.

Le psico-spie hanno fantomatici poteri, tra cui annullare le nuvole e uccidere le capre solo fissandole. Queste ultime sono onnipresenti vittime dei loro esperimenti, esattamente come lo era il popolo americano attraverso l’indottrinamento mediatico nell’era Bush.

A splendere nella pellicola, le interpretazioni, gli sguardi di Clooney e McGregor, i loro dialoghi pazzeschi, surreali e del tutto sconclusionati, ma soprattutto la vacuita’ delle parole della politica quando le si mettono su copione. E allora, la grandiosa macchina da guerra si rivela solo un’Armata Brancaleone contemporanea, senza arte ne’ parte.

Mentre le capre subiscono passivamente, fino alla loro liberazione – attenzione: non si liberano da sole, ma grazie ad una psicospia fatta di acidi. Ed e’ qui’ l’amara verita’: loro sono e sempre saranno solo delle capre, totalmente incapaci di affrancarsi dal potere dei politici.

Un film da vedere per ridere ma anche per riflettere e riflettersi.

District 9 – la recInsione

Ammetto di non apprezzare particolarmente il genere Sci-Fi. Sara’ che da piccolo mio fratello mi costringeva a maratone notturne della serie tv Visitors (un cult degli anni 80, dove alieni con fattezze rettili mangiavano topi a colazione). Oppure perché già abbastanza cazzi abbiamo con gli umani: non amo aggiungerei altra carne extraterrestre al fuoco. Eppure mi sono lasciato convincere a vedere District 9; una leva fondamentale e’ stato il produttore Peter Jackson, il cui lavoro ho apprezzato particolarmente nella trilogia de Il signore degli anelli.

Devo dire che non mi ha deluso neanche stavolta.

La trama capovolge il concetto tipico del genere, ed improvvisamente gli alieni divengono le vittime degli umani, relegati in un ghetto (il District 9), e discriminati. Ogni riferimento a xenofobie e razzismi NON e’ puramente casuale. E lo spettatore e’ spiazzato sin dall’inizio, perché non sa da che parte stare: umani o orribili gamberoni mangia carcasse animali? Come fanno a far pena delle simili creature tanto diverse da noi? Ed ecco il trucco narrativo: il capo della missione per la riallocazione degli alieni viene avvelenato da un liquido che lo trasforma lentamente in uno di loro. Ed allora l’empatia, solo allora, inizia a farsi strada nello spettatore. Si inizia ad odiare gli umani e a patteggiare per gli alieni.

E’ un manifesto colossale contro la vera alienazione: quella umana dalla sua stessa umanità. Dalla violenza con cui ognuno di noi si abbatte contro chi e’ diverso dalla maggioranza. Dai metodi antiumani utilizzati contro le minoranze. Ed e’ un manifesto per niente ottimistico: gli alieni saranno costretti a lasciare il pianeta per ritrovare la loro pace. Non c’e’ spazio per il lieto fine, ma solo per una grande amarezza di fondo.

Da vedere. Esclusi i leghisti, sennò prendono ispirazione per le politiche sull’immigrazione.

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