Stamane irrompe mia suocera in camera e ci dice: passate troppo tempo davanti il pc – tempo di affrontare la realtà là fuori. Bene, ha toccato un tasto dolente che vorrei affrontare in privato con voi, 18.000 e passa trafficanti.
Non ho mai amato la realtà – sin da piccolo. La prima primissima cosa che ho scritto s’intitolava proprio come questo post e parlava della mia difficoltà ad integrarmi nella realtà così come mi era propinata dagli occhi. Volevo vivere in un telefilm, senza problemi di emorroidi o psoriasi, senza turbe ormonali che non si risolvessero in epiche orgie nella villa di Santa Monica dei miei genitori.
Volevo non pensare all’ufficiale giudiziario che veniva a sequestrarci i mobili, ma preoccuparmi del dramma sociale di Kelly quando perse la verginità e tutti a scuola (a Beverly Hills) lo vennero a sapere. Oppure di quando Dawson non si scopò più la D&G (dolce e grigia) Katy Holmes ma la prorompente biondona che veniva da New York. Preferivo piangere per Rachel e Ross che mai riuscirono a stare insieme in Friends o della morte di un caro amico di Toni Soprano nell’ultima stagione.
Non sono mai stato un patito della realtà, e non credo lo sarò mai. Ci sono persone nate per sguazzarci nel mondo, io lo uso come punto di appoggio per volarci sopra. I bambini tendono a mostrare alla mamma le loro prime cacche nel cesso – io semplicemente invitavo la mia a sentire il suo soave odore e le strillavo dal bagno: “cosa ti fa venire in mente?” e lei: “la casa di campagna dove sono cresciuta”.
Non è la realtà ad essere magica, ma ciò a cui la spingiamo ad alludere.
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