Una vita correndo con le cuffiette

100 giorni. Bastano 100 giorni per restare senza genitori. Un governo lo si valuta nello stesso tempo, appena lo si elegge. Ed io mi sento sotto osservazione nello stesso modo. Dalla morte di mia madre il 18 febbraio scorso, a quella di mio padre sabato passato, non ho avuto un attimo di tregua. Nel mezzo, un incidente sulla moto che mi ha bloccato per un mese, e varie turbolenze in altri campi (lavoro, amore…). Sono piu forte di quanto pensassi. Nonostante mi ripeta spesso che crolleró, non succede. E mi fortifico.

Non avevo radici da anni, da quando lasciai casa 11 anni fa. Non vivevo la quotidianità familiare, nel bene e nel male. Non sono stato vicino ai miei genitori quanto avrei dovuto, né tantomeno a mio fratello, che ha sopportato tutto da solo (la moglie è stata un angelo). Non mi sento in colpa, so che il destino di emigrato meridionale mi accomuna a moltissimi altri. Non ho alcun tipo di rimpianto, se non quello di non aver tratto alcun insegnamento dalla loro morte.

I miei genitori si odiavano. Vivevano sotto lo stesso tetto per convenienza economica. Non parlavano da anni, ogni volta che s’incrociavano si maledivano. L’odio li ha uccisi, dello stesso terribile male, il cancro. Non credo alla storia delle sigarette, avevano smesso di fumare anni fa. L’odio avvelena il sangue, e mortifica lo spirito. Come si puo pretendere che il corpo non reagisca?

Non ho imparato niente. Continuo ad incavolarmi per stupide questioni, non dormo la notte per pensieri sul lavoro, non mi fermo mai a riflettere su quello che mi farebbe davvero bene, corro, corro. Anzi, scappo. La psoriasi aumenta, mi avverte di rallentare, di darci un taglio con tutta questa frenesia. Dove corro mai? Chi mi sta col fiato sul collo. Nessuno, proprio nessuno. La verità è che il mio peggior nemico sono io.

Ora è tempo di fermarsi. Lo dico sempre. So esattamente le cose da fare. Conosco la lista a menadito. Eppure giro lo sguardo verso altre mete, altre ambizioni, altri traguardi. Sono rifugi sicuri. Occupano il mio tempo, i miei pensieri, la mia energia. Invece di scendere dalla ruota, continuo ad accelerare come un criceto impazzito.

Fematevi, voglio scendere. È un librodi Bocca. Ma è anche il grido che mi assorda nei momenti di silenzio e di ozio. Non so davvero se lo ascolteró o alzeró il volume della vita per coprirne il suono.

Vedremo.

Se banale diventa vitale

Giorni fa pubblicai su facebook questo status: “ci sono giorni in cui ti senti onnipotente. Meno male che finiscono tutti seduti sul wc a ricordarti che non lo sei”. Noi siamo umani, finiti, imperfetti ed impotenti. Il grande tranello della natura è illuderci del contrario. Come darsi motivazione se non elevandosi a semi-divinità terrestri? Se non lo facessimo, anche incosciamente, il mondo non esisterebbe affatto – perchè si regge sulla sindrome del “moto a luogo” di ogni uomo. Che ciecamente avanza verso una meta che neanche conosce.

La religione è sempre stata un TomTom spirituale, in grado di dare agli uomini la propria posizione Gps in qualsiasi momento. Dato un certo percorso (punto A: nascita, punto B: l’aldilà), ti dava le indicazioni stradali per percorrerlo correttamente senza intoppi. E poi la geografia morale è cambiata, ma le mappe della religione non si sono mai aggiornate. L’uomo è perso, sconcertato, in cerca di una bussola nuova.

Venne così l’informatica. Al desiderio di direzione si sopperì con il desiderio di controllo. In un mondo che non (ri)conosco più, almeno posso tenere sott’occhio tutto quello che mi circonda. Si perde la ricerca del qualcos’altro da se stessi, perchè ci si risparmia il rischio della scoperta. Da avventurieri dell’anima, siamo diventati navigatori di internet. Che è una Rete, quindi sia insieme di relazioni, sia una trappola che ci irretisce, appunto.

In questa evoluzione non possiamo riconoscere un meglio o un peggio: l’uomo si adatta a quanto gli si presenta. Lo farà sempre, è la sua unica vera costante. Assieme alla morte, che è la bussola da tenere sempre a mente. Dimenticarla significa subirne la paura. Affrontarla significa darle corda.

Un filosofo diceva di vivere per morire. Non incitava al suicidio, anzi. Era un inno alla vita, al goderne ogni istante, perchè tanto scontato sembra qualcosa, tanto più prezioso diventerà alla sua scomparsa. Parole scontate, retoriche, da sermone copiato ed incollato. Ma se ci pensate, l’unica certezza è la morte: se non sfruttassimo questa conoscenza, potremmo davvero dirci differenti da una pianta?

Scusate il pistolotto, ma non è il periodo migliore della mia vita. Quando vedi tua madre spegnersi lentamente, capisci di non servire a nulla. E certe banalità diventano ancore di salvezza inimmaginabili.

Steve Jobs, morto un simbolo. O una speranza?

La sua morte l’ho appresa dal suo iPad. Replicata altre mille volte dalle notifications sul suo iPhone ed il suo iPod. E’ morto un simbolo, come se fossero morte la Coca Cola o la Nutella. Steve Jobs trascendeva il marchio che aveva creato, era molto di più.

Quando in azienda vedevo manager indaffaratissimi che credevano di salvare il mondo, gli dicevo: “calmati, sei solo un impiegato, mica Steve Jobs”. Per me lui e’ stata fonte d’ispirazione continua. Dall’inizio della mia carriera. Ho sempre amato il suo stile sobrio di presentare, la sua voglia (o ossessione) di cambiare e migliorare la vita della gente.

Non m’inganno. Non era un benefattore, era un fottuttissimo genio del male. Ma senza di lui ho come l’impressione che si chiuda definitivamente un ciclo. L’America cede il passo alla Cina da tempo, ed ora perde anche l’ultimo tassello. L’Oriente si riprende le sue rivincite.

Steve sorride di questo. Ne sono certo. Lui, che del simbolo del peccato ne ha fatto la sua missione di vita, sapeva bene che l’unico peccato da non commettere era proprio fermarsi e compiagersi. Morto un Jobs, se ne fara’ un altro.

Ma nessuno rivoluzionera’ la nostra vita come lui. L’ultimo grande genio dei nostri tempi ci ha lasciati orfani della speranza di cui era portatore.

Momento di grande tristezza.

Moda, Modella

Mi ha colpito molto il suicidio della modella Ruslana, 20 anni. Mi ha colpito molto, perchè una modella rappresenta l’estremizzazione dei nostri modelli di vista. Edonismo, immagine, egocentrismo, protagonismo sono il pane quotidiano per una professionista della passerella. Sin da piccolo – più o meno l’età delle seghe quando una ragazzina mi rifiutò perchè ero grasso – ho pensato che in fin dei conti siamo tutti dei modelli.

Da criticare, ammirare, ignorare, disprezzare, ma pur sempre modelli. E come potrebbe essere altrimenti? Viviamo affastellati in città megalopiche in cui a conoscersi tutti non basterebbe una vita e così l’immagine, la prima impressione è ciò che ci aiuta a discernere tra noi e loro, tra amici e nemici. L’immagine è la scelta sociale più economica rispetto all’entropia cosmopolita.

Per cui, fa impressione la morte di una modella, perchè nel suo essere c’identifichiamo un pò tutti. Se una come lei – bella, ricca, con una carriera davanti – desidera uccidersi, perchè non potrebbe capitare anche noi – versione + sudata, umidiccia e mortale di Ruslana?

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